Alessandro Piccolo

Alessandro Piccolo è professore di Chimica agraria ed ecologia presso l'università Federico II di Napoli.

La bioagricoltura, scienza dell’umanesimo. Intervista ad Alessandro Piccolo

Abbandonare la vecchia tecnologia basata sui pesticidi per andare verso un nuovo approccio, sano e sostenibile. È l’agricoltura che mette al centro gli esseri umani e l’ambiente, quella auspicata dal docente della Federico II d Napoli, tra i massimi esperti mondiali di scienze del suolo

Una laurea e un dottorato in chimica all’Università La Sapienza di Roma, seguiti da una borsa di studio Fulbright come ricercatore negli Stati Uniti alla Uiuc (University of Illinois in Urbana-Champaign) dove ha ottenuto anche una laurea in chimica agraria. Sono soltanto alcune delle tappe di studio e ricerca di Alessandro Piccolo che dal 1992 è professore di Chimica agraria ed ecologia presso l’università Federico II di Napoli. Il professor Piccolo è un esperto di scienze del suolo, con un interesse particolare verso l’humus. E proprio intorno alla natura e alla bioattività della sostanza organica unificata sarebbe dovuto ruotare il suo intervento al Convegno dell’Associazione per l’agricoltura biodinamica di fine febbraio, poi annullato a causa dell’emergenza coronavirus. AGGIORNAMENTO: il convegno è stato posticipato al 12 novembre, il pubblico potrà seguire l’evento in remoto tramite la diretta streaming di Agricolturabio.info, tutte le informazioni sono su www.convegnobiodinamica.it.

Abbiamo parlato con lui, che è una delle figure più autorevoli in agronomia, circa il bisogno di rivedere il nostro modo di fare agricoltura per andare verso un modello che non deteriori la terra, l’ambiente, il suolo, preservandoli invece per le future generazioni:

«Vuol dire abbandonare delle tecnologie basate su conoscenze precedenti, dannose per l’ambiente, come i pesticidi che producono un effetto deleterio sulla biodiversità – spiega il professore – Riutilizzare materiali, ora stupidamente bruciati, per migliorare i processi naturali è un obiettivo sempre più sentito».

 

Il suo intervento al convegno avrebbe dovuto affrontare il tema dell’humus, la sostanza organica naturale. Qual è la particolarità dell’humus biodinamico, che cosa fa la biodinamica per l’humus?
È un discorso lungo. Bisogna capire che l’humus nel suolo e nell’ambiente è una sostanza organica con un’origine naturale, proviene dalla degradazione microbica e abiotica di tessuti vegetali arrivati a morte e tutto il materiale biomolecolare nelle cellule viene rilasciato e sottoposto a un processo di degradazione termodinamico fino a raggiungere a una stabilità chimico fisica. Questo processo avviene in condizioni aerobiche, a carico cioè di microrganismi aerobi. Il preparato 500, l’humus usato in biodinamica, il famoso letame immesso nel corno bovino e seppellito a una certa profondità per un certo numero di mesi e poi usato come soluzione in acqua, ha un processo un po’ diverso. Il letame nel corno bovino infatti non riceve un’erogazione di ossigeno come invece nella formazione di humus nel compost aerobico, ma solo una micro-ossigenazione attraverso la porosità molto fine del corno bovino. Quindi l’azione microbica presente nel letame, nel corso dei mesi in cui questo è seppellito nel corno sotto terra è ridotta dalla limitata ossigenazione. Questo fa sì che le trasformazioni della sostanza organica siano diverse da quelle che avvengono in una condizione di completa aerobicità. La conseguenza è che la lignina contenuta nel letame viene degradata molto più lentamente e non completamente. Quindi nel preparato 500 esistono dei componenti ligninici, per essere precisi dei composti fenolici, che non sono stati ancora mineralizzati, e sono essi a dare l’attività biologica all’humus biodinamico. Per questo il preparato 500 ha la capacità di biostimolare le radici delle piante.

È una capacità che deriva da una decomposizione più lenta e graduale, lo rende quindi migliore rispetto all’humus non biodinamico?
C’è una concentrazione maggiore di prodotti fenolici, non degradati come nel compost tradizionale, che fornisce una maggiore capacità di stimolazione degli apparati fisiologici-biochimici delle colture vegetali, rispetto alla sostanza organica ottenuta attraverso il compostaggio aerobico. Tuttavia, anche l’humus da compost aerobico contiene dei sistemi molecolari che permettono la biostimolazione delle colture vegetali. Comunque, in generale l’humus da corno letame è un humus molto attivo per via del più alto contenuto di composti fenolici mobili, dando una più elevata possibilità di esercitare un’azione biostimolante sulle piante e di sviluppo della qualità del frutto.

Sono capacità che si possono utilizzare anche per la rigenerazione del suolo?
È un discorso di scala. Naturalmente i composti fenolici bioattivi presenti nell’humus biodinamico sono sufficienti in quantità molto basse per ettaro ad espletare l’attività biostimolante degli apparati fisiologici delle radici vegetali. Al contrario, quando si pensa alla stabilizzazione del suolo c’è bisogno di una quantità di humus molto maggiore. Perciò, la  funzione di rigenerazione biochimica e fisica del suolo non può essere espletata dall’humus da corno letame, la cui produzione è relativamente limitata. Tuttavia, poiché è sempre la sostanza organica responsabile della qualità del suolo che permette non solo la sua fertilità chimica e biologica ma anche la sua stabilizzazione fisica e la riduzione del rischio di erosione, si può giungere alla rigenerazione del suolo ammendandolo con del vero e proprio compost tradizionale, che, prodotto con le biomasse vegetali ed animali della stessa azienda biodinamica, sviluppa le condizioni fisiche e biochimiche per sostenere una produzione vegetale di grande qualità.

Lei ha  appena spiegato la composizione dell’humus biodinamico in termini scientifici. Dunque esistono delle basi scientifiche per la biodinamica?
Esistono nella misura in cui queste basi si vogliano costruire con il metodo scientifico. Quando “non esistono” è perché non vi è ancora la volontà di porle e svilupparle. Per qualsiasi fenomeno della sfera oggettiva della nostra realtà vi è sempre una spiegazione razionale e quindi scientifica, i cui effetti hanno sempre della cause, che occorre ricercare con molta calma e razionalità. Nel caso del preparato 500, l’humus biodinamico, si tratta di studiare e caratterizzare a fondo questo tipo di materiale. È un’indagine non facile naturalmente, data la sua complessa eterogeneità molecolare. Infatti, lo studio dell’humus è un problema che ci accompagna dall’inizio della storia della chimica e che solo recentemente ha potuto fare dei passi avanti nella comprensione della sua natura chimica grazie ai sofisticati strumenti analitici oggi a disposizione. Inoltre, lo studio dell’humus non si riduce alla sola caratterizzazione del materiale ma anche alla molteplicità delle sue interazioni con le componenti inorganiche e microbiche del suolo e con l’apparato radicale delle piante. Tale complessità ha poi bisogno di un moderno approccio scientifico multidisciplinare che veda chimici, biochimici, microbiologi e fisiologi impegnarsi contemporaneamente allo sviluppo di un’agricoltura sostenibile biologica e biodinamica.

Eppure, nonostante questo, nei confronti della biodinamica continuano ad esserci molti attacchi. Perché, secondo lei?
Possono esserci tante spiegazioni, la prima è più anodina e meno coinvolgente, potrebbe cioè dipendere dal fatto che questi materiali non sono sufficientemente conosciuti nella loro composizione molecolare e nelle loro molteplici funzioni, perché altamente eterogenei e complessi. A questa complessità la maggioranza degli operatori scientifici non sono abituati. I più virulenti attacchi alla biodinamica provengono da scienziati che sono dei biochimici, dei genetisti o dei fisiologi. Il loro è un approccio centrato sulla riproducibilità del materiale molecolare della cellula e quindi sulla certezza delle sue funzioni, nel quadro di una termodinamica del reversibile dovuta alla protezione delle membrane cellulari. Invece, l’humus si forma fuori della cellula e sottostà alla termodinamica dell’irreversibile e al potenziale “redox” dell’ossigeno ambientale con uno sviluppo molecolare casuale ed eterogeneo  difficilmente riproducibile nel dettaglio. Quindi vi è una forma mentis scientifica molto diversa. Infatti, quando si conosce una struttura e la sua riproducibilità biologica si possono immaginare degli esperimenti impostati soggettivamente, affinché il risultato diventi un’oggettivazione certa. Questo approccio è ben più difficile nel mondo dell’irreversibile e con strutture molecolari molto più complesse come quelle dell’humus. Tuttavia, il metodo scientifico e il trattamento statistico dei risultati è applicabile anche in questo caso, come dimostra già un’ampia letteratura scientifica, la quale è ben a disposizione di tutti, anche dei critici dell’approccio biodinamico.

Questa mancanza di conoscenza deriva dal fatto che non ci sono abbastanza centri di ricerca e formazione?
Sì, ma questo è un circolo vizioso. Meno si conosce, meno si ha la possibilità di fare ricerca, non si fa ricerca perché non si conosce. È un processo che la scienza conosce molto bene naturalmente, basti pensare all’epistemologo Thomas Kuhn, che ha parlato dei paradigmi scientifici che pian piano con l’accumulo dei dati cancellano i paradigmi precedenti, che sono ormai “falsificabili” per usare il termine di Popper, quindi non più considerati veri. Si arriva a un paradigma scientifico solo attraverso un lento processo di accumulo di conoscenze fino a istituire centri di ricerca dedicati che in modo sistematico illustrano e ampliano l’argomento di ricerca. Basti pensare che oggi il concetto di macromolecola biologica è normale, ma fino agli anni ’20 del Novecento non si accettava l’esistenza delle biomolecole. Infatti, Staudinger che per averle comprese prese il Nobel nel 1953,  fu a lungo denigrato e messo alla berlina dalla comunità scientifica del tempo per aver detto che esistevano le biomolecole macropolimeriche. La storia della scienza è costellata di episodi come questo. Quando parliamo di scienza, ricordiamoci che parliamo di un fatto soggettivo. La scienza la fanno gli uomini, che a volte sono vittime di passioni più forti della loro capacità di oggettivare la descrizione della natura.

È possibile una ricerca senza epistemologia?
Certamente è possibile. La nostra vita è una ricerca, non c’è bisogno di essere epistemologi. Tuttavia, con la scienza il processo dii oggettivazione aumenta progressivamente, perché la scienza ha come corollario la tecnica e quindi non è solo conoscenza della realtà che è oggetto, ma anche controllo e manipolazione della realtà. Nel processo scientifico moderno, non è solo l’epistemologia ad essere importante, ma anche la produzione di tecnologia. Gli oppositori della biodinamica sono molto forti perché da una conoscenza biochimica basilare, vale a dire la descrizione a doppia elica del gene, dopo più di cinquant’anni si sono sviluppate delle biotecnologie potentissime, ma anche potenzialmente pericolose per l’uomo. C’è quindi un intervallo di tempo tra conoscenza e tecnica, cioè tra la coscienza di come funziona la realtà fino al controllo della realtà stessa. Se sia giusto o meno non lo so, potrebbe esserlo se ci fosse sempre un umanesimo nella conoscenza. Quello che trovo affascinante, personalmente, nella biodinamica è proprio questo, il contatto perenne con l’uomo, con le esigenze umane e dell’ambiente e della natura. Sono cose che gli oppositori della biodinamica hanno dimenticato o trascurano. Forse questo è un altro motivo della forte opposizione. La tecnica e la tecnologia hanno preso il sopravvento.

Siamo stati colpiti da una pandemia che non ci saremmo mai aspettati. L’agricoltura ha un ruolo in tutto questo, in che direzione deve andare?
Aldilà della pandemia, l’agricoltura deve essere sempre più sostenibile, nel senso vero della sostenibilità, ossia l’ambiente e l’ecosistema agricolo non devono essere degradati, ma mantenuti inalterati per le future generazioni. Vuol dire abbandonare delle tecnologie precedenti basate su conoscenze del passato, dannose per l’ambiente, come i pesticidi, l’uso indiscriminato del glifosato ne è un esempio, che hanno un effetto deleterio sulla biodiversità, pensiamo solo alla moria delle api. Riutilizzare materiali, ora stupidamente bruciati, per migliorare i processi naturali è un obiettivo sempre più sentito. Aiutare l’agricoltura a ritrasformare in humus il carbonio delle biomasse di scarto, così da stimolare e aumentare quei processi naturali che aumentano la produttività agraria. Per raggiungere questo obiettivo però è necessario studiare l’interazione tra humus, suolo, biomassa microbica e l’apparato radicale delle piante. È uno studio molto difficile, per la necessità di integrazione della forte complessità senza la quale non si potrà creare una nuova ma sostenibile tecnologia.

Come valuta la nuova strategia europea Farm to Fork?
È questa la strada, ma non può essere solo uno slogan vuoto. Dietro devono esserci azioni concrete. Le lobbies degli agrofarmaci sono molto forti, quindi immagino che sarà un processo molto lento in cui bisognerà sostituire ai milioni di dollari di fatturato delle industrie chimiche qualcos’altro.

A questo proposito, cosa pensa del caso Xylella?
Penso che non si sia fatta abbastanza ricerca e che si siano usati degli approcci pregiudiziali. È un po’come quando si parla del coronavirus e delle direttive dell’Oms. È tutto basato sulla media e non sul caso specifico, tanto che ora stiamo vedendo come molte cose che ci avevano raccontato non siano vere. Un altro esempio potrebbe essere quello della cura, si parla di vaccini ma sappiamo come possano essere pericolosi e non adeguati. Non abbiamo ancora trovato un vaccino per l’Hiv! Ogni volta che c’è una campagna di vaccini si usa quello dell’anno precedente, non assolutamente adeguato a quello dell’anno in corso. Il vaccino non è la strada, però come vede nei media si parla solo di vaccini, non si parla di terapia, non si parla di plasma, di farmaci antitrombotici, perché non sono consoni ad una certa direzione di marcia dettata da interessi superiori. Il processo è molto lungo e sarebbe necessario che la popolazione fosse avvertita dei pericoli delle direttive basate su modelli predittivi e spesso inaccurati.

Pianura Padana, Terra dei Fuochi, suoli devastati dall’agricoltura intensiva o dall’interramento di sostanze tossiche. L’agricoltura biodinamica può aiutare al recupero di questi terreni
Assolutamente sì. I suoli della Pianura padana sono impoveriti perché c’è stata un’agricoltura intensiva di monocolture, quelle del mais e della soia, da decenni, quindi questo ha impedito alla sostanza organica di mantenere i suoi livelli e di fornire al suolo quelle caratteristiche chimiche e fisiche di bilanciamento tali da mantenere la biodiversità e fornire la migliore produzione agraria. È necessario quindi tornare ai vecchi sistemi, la rotazione, ad esempio, ma principalmente l’aggiunta della sostanza organica, che è centrale nella vita del pianeta e in quella dell’uomo. L’humus non a caso ha la sua radice nella parola “homo” in latino e nella parola sanscrita “om” che significa il respiro di Dio. È centrale. Solo la conservazione dell’humus nel suolo può permettere al Pianeta di continuare a respirare. Perciò occorre spingere affinché tutto ciò che è riciclo di sostanza organica possa giungere al suolo affinché esso possa essere rigenerato con nuovo humus. Inoltre, il concetto di sostenibilità impone di riutilizzare il fotosintetato vegetale senza sfruttare le risorse non rinnovabili, quali il petrolio o i depositi di lignite o torba. Ad esempio, sappiamo che si sviluppano le bioraffinerie per usare materiali vegetali quali i polisaccaridi per produrre carburanti a base di etanolo di seconda generazione, o la lignina composta da molecole aromatiche utilissime per sostituire i derivati del petrolio.

È una via per ridurre anche l’inquinamento dei terreni?
Per quanto riguarda la questione dei terreni inquinati, è anche un fattore di educazione civica, di civiltà dei cittadini, oltre che di rigore da parte delle istituzioni. La Terra dei Fuochi è uno scandalo internazionale, anche se è bene distinguere episodi come, ad esempio, l’interramento a venti metri sotto il suolo di fusti e materiali di rifiuto provenienti magari dall’estero, dagli incendi in superficie dell’immondizia che producono e diffondono diossina anche a temperature basse. Sono mancanze di senso civico ma anche di rigore e serietà delle istituzioni comunali e regionali. L’inquinamento dei suoli dovuto a incendi incontrollati o gli sversamenti illegali chiamano allo sviluppo di tecnologie di bonifica sostenibili che possono senz’altro avere una base nell’uso di humus, le cui multiforme proprietà permettono una decontaminazione veloce ed una rigenerazione dei suoli. Poi ci sono le leggende metropolitane, come ad esempio la phytoremediation per far rinascere i suoli. Non si bonificano i suoli contaminati facendo crescere piantine: l’inquinamento a volte è dovuto a composti estremamente recalcitranti e presenti anche a grande profondità rendendo la phytoremediation totalmente inadeguata alla bisogna.

Scrive per noi

Valentina Gentile
Valentina Gentile
Valentina Gentile è nata a Napoli, cresciuta tra Campania e Sicilia, e vive a Roma. Giornalista, col-labora con La Stampa, in particolare con l’inserto Tuttogreen, con la testata online Sapeream-biente e con il periodico Libero Pensiero. Ha scritto di cinema per Sentieri Selvaggi e di ambiente per La Nuova Ecologia, ha collaborato con Radio Popolare Roma, Radio Vaticana e Al Jazeera English. In un passato non troppo lontano, è stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma, e ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè. E naturalmente l’agricoltura bio in tutte le sue declinazioni, dai campi alla tavola.

Contatto: Valentina Gentile

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