La sfida dei saperi per la conversione alla bioagricoltura
L’Italia ha la grande opportunità di consolidare il proprio primato nella sostenibilità. Ma serve un profondo lavoro di semina delle conoscenze per cambiare modello in campo agricolo e non solo. Oltre a una legge, ferma da tempo al Senato, coerente con gli obiettivi europei
L’Unione Europea sta programmando il Green Deal, ossia un nuovo corso verde su cui impostare la conversione ecologica dell’economia e della vita pubblica. Rispetto a questo disegno di portata storica, l’Italia si trova in una posizione favorita, soprattutto grazie al suo primato nella bioagricoltura detenuto fra tutti i paesi europei. È strategico per l’Italia che il Senato approvi, senza sostanziali variazioni, la legge sull’agricoltura biologica e biodinamica ferma da troppo tempo. È parere prevalente delle organizzazioni italiane dell’agroalimentare. Proprio nei giorni scorsi la Commissione UE ha varato la Strategia Farm to Fork, con l’obiettivo, in soli dieci anni, di dimezzare i pesticidi, riciclare le sostanze organiche e portare la bioagricoltura al 25% del suolo coltivato in Europa (dall’attuale 7,5%). Il mondo corre veloce, sicuramente con tempi ed equilibri diversi dai nostri.
La legge sul bio in Italia ha attraversato tre legislature ed è ancora ferma. Senza l’approvazione della legge l’Italia, da leader europeo delle esportazioni di prodotti biologici e biodinamici che è oggi, si troverà in seria difficoltà e in seconda linea in una fase cruciale.
A rischio non sono solo le aziende del settore bio (80mila imprese). A rischio sono tutte le aziende agricole italiane. Con la drastica riduzione dei pesticidi e dei concimi sintetici previsti dalla Commissione Europea e in assenza di formazione e mezzi tecnici ecologici, rischiano di non garantire la produzione. Salvare l’agricoltura italiana significa oggi far penetrare le conoscenze del biologico e biodinamico e programmare un processo virtuoso di conversione resiliente. È un obbiettivo vitale, che non è permesso mancare. Dovremo cioè mettere in condizione le aziende italiane di produrre bene, come sanno, con un minore impatto ambientale, garantendo qualità e continuità rispetto agli obbiettivi della Strategia Farm to Fork e in questo la bioagricoltura è ancora più un patrimonio di interesse generale.
Per questo è insensato seguire gli indirizzi della parte più conservatrice dell’accademia ed è invece sano puntare, con le migliori forze e organizzazioni del Paese, su un piano strategico nazionale di formazione, ricerca e consulenza, che costituisca la grande riforma dei saperi ecologici.
Bisogna istituire corsi di laurea e cattedre in agricoltura biologica e biodinamica, avviare strategie di ricerca e distribuire sul territorio operatori che accompagnino tutte le aziende. Anche per questo è fondamentale che la legge di settore del bio sia approvata presto. A questa legge è anche collegato il futuro dell’industria chimica italiana, che rischia il depotenziamento nell’agrochimica e che invece, anche dalla collaborazione con l’eccellenza del bio, avrebbe tutte le condizioni per assumere in Europa il posto preminente nella grande conversione della chimica verde del Green Deal UE.
Oggi interessi tesi a rallentare, far saltare, o stravolgere con emendamenti la legge non coincidono con quelli generali e urgenti, che tutti dobbiamo avere a cuore.
Scrive per noi
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Carlo Triarico, storico della scienza, presiede l’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica. È vicepresidente di Federbio e direttore dell’Istituto Apab, istituto di formazione riconosciuto. È membro del “Comitato permanente ricerca in agricoltura biologica e biodinamica” del Ministero dell’Agricoltura, editorialista per l’Osservatore Romano e conduttore della rubrica settimanale “Agricoltura? Parliamone” su Radio Radicale. Svolge un’intensa attività di volontariato, divulgazione e insegnamento.
Contatto: Carlo Triarico
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